Home Interviews Intervista a Dewey Dell
Intervista a Dewey Dell

Intervista a Dewey Dell

16
0
foto di Demetrio Castellucci

In occasione del debutto del nuovo spettacolo Grave, abbiamo intervistato la compagnia Dewey Dell composta dai giovanissimi Eugenio Resta, Agata, Demetrio e Teodora Castellucci. I quattro hanno tenuto a Civitanova un laboratorio di 4 giorni con 11 ragazze (guarda la video-intervista) finalizzato alla realizzazione di Grave che ha inaugurato la prima sera di Civitanova Festival.

Stasera debuttate con Grave. Nei vostri lavori affrontate spesso percorsi un po’ scomodi che hanno a che fare con l’abisso. Nel caso di Grave indagate un corpo che precipita: cosa vi ha spinto verso questa indagine e quali sono gli aspetti che vi interessano di un corpo che cade?

Teodora: Dal punto di vista del movimento la cosa che ci interessava era quella di come inventarsi una danza attorno a un movimento che di per sé ognuno di noi conosce in modo innato, basta pensare a quando ci addormentiamo, ai sussulti che abbiamo ogni tanto come se stessimo cadendo. Eravamo interessati a come far sì che questo impulso, innato in ciascuno di noi, si potesse trasformare in una danza che ricordasse la sensazione di una caduta senza prendere però lo stereotipo dei movimenti della caduta stessa. Quindi in qualche modo ci interessava come farli lievitare in un’altra dimensione che però ha come madre quella radice innata lì. Questo per quanto riguarda la danza, poi Demetrio si occupa della musiche, Eugenio della scena e delle luci. Questo è quello che ci ha mosso all’inizio.

Nella caduta c’è una consapevolezza della fine: nel momento in cui un corpo cade sa che si sta schiantando. Nella prima parte di Grave il volto della danzatrice è coperto dai capelli e sembra che vogliate allontanare questa consapevolezza; nella seconda parte i capelli sembrano vincere la gravità e questa consapevolezza della fine è ben presente. Volete trasmettere o meno la consapevolezza della fine?

Teodora: Sicuramente sì. L’argomento stesso della caduta è come se rappresentasse una tragedia in minimi termini, cioè ridotta all’osso: quando inizia la caduta si sa esattamente come andrà a finire e la fine sarà uno schianto, quindi è una trasformazione che porta o dalla vita alla morte oppure. se si tratta di un oggetto e non di un corpo umano, è una trasformazione che sta nella rottura o nella trasformazione del materiale di cui è fatta.

Per quanto riguarda i capelli: questa può essere una interpretazione sicuramente valida. Noi ci siamo concentrati sui capelli perché era come se fosse l’unico indice del vettore della caduta. La prima danzatrice, che è Agata, è come se stesse cadendo di testa; la figura successiva, che sono io, è come se stesse cadendo di gambe. Abbiamo due linee che si incrociano ma si fa fatica a trarre una storia da questo lavoro perché è molto più complesso e pieno di substrati; però il fatto delle ragazze che entrano in scena come un coro tragico, o l’impostazione stessa del lavoro, di sicuro ruota intorno a questa consapevolezza di fine.

Come è nata l’idea di fare un mini laboratorio finalizzato allo spettacolo e perché avete scelto solo donne?

Eugenio: Mentre lavoravamo a Grave inizialmente ci siamo concentrati sulla parte della prima figura, quella con i capelli davanti la faccia, e di un’altra figura con i capelli che salgono e che subiscono la gravità nella direzione opposta. Poi abbiamo sentito il bisogno di dare più importanza al discorso di un corpo che pesa, che grava, che precipita, con una massa di persone. Per cui abbiamo pensato che avere una massa di persone in scena potesse accentuare o dare valore a questo concetto.

Teodora: …Per quanto riguarda il discorso delle ragazze, della femminilità in generale, questa è una domanda che rimane aperta. Noi sappiamo in qualche modo che le persone che entrano in scena possono essere la riflessione di Agata – che in qualche modo è la protagonista di tutto lo spettacolo – ma anche un riferimento a me stessa e al fatto che è evidente che le figure principali siano femmine. Era importante che si mantenesse la femminilità, anche per un discorso di coro e quindi per una questione di omologazione generale, di unità nella varietà stessa di fisici (non scegliamo mai le ragazze in base al fisico, più varie sono meglio è). In generale è la riflessione dei personaggi che sono in scena: possono essere sia un’ombra di Agata che un’anticipazione di quello che sarà la fine. Non c’è una vera e unica risposta al fatto che siano tutte ragazze, ce ne sono tante.

La partitura sonora è fondamentale per il vostro lavoro e fa parte della stessa coreografia. Nel caso di questo spettacolo vorrei sapere se la coreografia ha influenzato la musica o il contrario e come si è sviluppata la partitura.

Demetrio: Non c’è un vero e proprio metodo di creazione, questo rapporto tra musica e movimenti cambia tutte le volte. Nel caso di Grave abbiamo cominciato a fare delle prove e a lavorare in totale silenzio per la prima parte; poi a questo silenzio si è aggiunta una musica che aveva la caratteristica di provenire da molto lontano e quindi, per esempio, ho lavorato con volumi molto bassi. Questo per accentuare il discorso della fine stessa che ha insito un elemento di solitudine e di isolamento, che poi è la stessa caduta ad imporre anche a livello fisico e a livello di attività dei movimenti. Per la seconda parte del lavoro è stato il procedimento opposto: siamo partiti da una musica ritmica su cui sono nati dei movimenti e quindi il rapporto è completamente diverso rispetto alla prima parte in cui c’è un movimento che nasce in silenzio e viene poi raggiunto da un rumore distante.

Per quanto riguarda la costruzione delle luci e delle scene, avete ricercato delle ombre?

Eugenio: Dal punto di vista delle luci il discorso è molto complesso. Abbiamo cercato tutti assieme di vedere dei movimenti o dei corpi da diversi punti di vista, da diverse angolazioni: come immaginarsi un corpo visto dall’alto, come immaginarlo dal basso… Ad esempio mi sono immaginato spesso di vedere i corpi davanti a un precipizio e per questo abbiamo lavorato su alcune semplicissime posizioni del gruppo di ragazze e su una luce che potesse rendere questo senso di vuoto. Poi inizialmente ho lavorato molto sui colori, sul peso fisico che potesse avere un colore in scena (inizialmente avevamo lavorato con dei neon e dopo con altri materiali); ero interessato alla pesantezza e alla densità di un colore. Anche le linee, che sono l’unico elemento scenico, sono delle linee nere appese come se fossero una pioggia concentrata sulle teste delle attrici: ancora una volta utilizzate per rendere forte il senso di una gravità, di qualcosa che sta sopra la testa, che pesa e sta per cadere. Diverse questioni direi.

Vorrei farvi un’ultima domanda collegata all’oggi. Questo tema potrebbe rispecchiare il contesto storico in cui ci stiamo un po’ ritrovando: ossia in caduta, che poi forse crea una trasformazione – come diceva Teodora prima, nel momento in cui un corpo o un oggetto cadono subiscono una trasformazione. A che punto della caduta potremmo collocarci?

Teodora: Se vogliamo anche la nascita stessa può essere presa come una caduta siderale che viene dall’esterno, come se fossimo tutti precipitati da un’altra dimensione. Noi abbiamo riflettuto anche sul fatto che in inglese e in francese si usino i termini to fall in love o to fall asleep per dire innamorarsi o addormentarsi, come se l’entrata all’interno di queste fasi, che non sono il quotidiano, siano marcate da questa parola che è to fall, come se fosse un ingresso violento verso una dimensione totalmente diversa.

Noi non facciamo mai lavori politici e mai con un riferimento reale: piuttosto ci travestiamo per nasconderci dal quotidiano, siamo più proiettati verso una fantasia – se possiamo usare questo termine senza preoccuparcene troppo.

Io sono abbastanza ottimista, quindi vedere la caduta nella società di oggi potrebbe anche essere che stiamo sì cadendo, ma di sicuro è positivo anche se sembra che adesso sia un rotolare sempre più in basso. La caduta è come se fosse la chiave per un passaggio velocissimo verso un’altra dimensione.

(16)