Home Interviews Creazione come atto di guarigione: intervista a Giulio D’Anna
Creazione come atto di guarigione: intervista a Giulio D’Anna

Creazione come atto di guarigione: intervista a Giulio D’Anna

43
0

Due poetiche ben delineate, due percorsi artistici diversi, due ricerche ben distinte, ma che, per alcuni aspetti forse casuali o forse no (le origini natie, la piattaforma Matilde, il progetto europeo Choreoroam…) si incontrano incredibilmente: stiamo parlando di Giulio D’Anna e Alessandro Sciarroni, coreografi – e non solo – appena insigniti del prestigioso Premio Danza & Danza 2012 per la sezione Autori emergenti. Li abbiamo intervistati per andare a fondo nella loro ricerca artistica e saperne di più sui loro progetti.

Nato a San Benedetto del Tronto, Giulio D’Anna ha incontrato per la prima volta la danza a 10 anni. Dopo aver studiato balletto e modern jazz si dedica alla danza contemporanea trasferendosi in Olanda e frequentando l’ottimo centro SNDO (Scuola per lo Sviluppo della Nuova Danza) di Amsterdam. Diventa autore, coreografo e performer, inizia a vincere premi e a girare l’Europa (leggi qui per saperne di più). Ci ha raccontato come nascono le sue creazioni e del dialogo emozionale che si va creando tra lui e il pubblico…

foto di Francesca Marchetti

Giulio, il tuo spettacolo Parkin’Son sta facendo incetta di premi: due anni fa il Premio Equilibrio per la nuova danza e ora il Premio Danza & Danza che prende in considerazione questo tuo lavoro ma più in generale il tuo percorso artistico, per la “sensibilità alla creazione” come è scritto nella motivazione del Premio. Potresti dirci che cosa ispira e muove la tua ricerca coreografica? C’è una volontà di indagine della realtà e società contemporanea nei tuoi lavori? O c’è più un tentativo di esplorare le varie declinazioni di alcuni immaginari collettivi?
Il punto di partenza è sempre molto personale. Sono affascinato da stati emozionali a cui mi è difficile dare un nome. Così inizio a cercare immagini, movimenti e riferimenti nel mondo esterno che in qualche modo risuonano con lo stato emozionale che è sotto analisi. Per lo più gioco con riferimenti e nozioni provenienti dal panorama scientifico e terapeutico, dai classici letterari e teatrali e della cultura pop.

Parte quindi un modo di lavorare doppio. Se da una parte il mio intuito e lo spirito di ricerca guida quasi ciecamente la sperimentazione di materiali e ricerche di movimento, dall’altra, inizio a tracciare le connessioni dei miei interessi con il mondo esterno.
La ricerca di movimento è un elemento che si genera da una mia personale necessità e interesse. Porre domande al corpo piuttosto che alla mente è qualcosa di cui non potrei fare a meno. La scelta di essere un maker teatrale però m’investe della responsabilità di articolare quello che scopro per me stesso a un pubblico. Il lavoro d’interazione tra il mio ombelico e il mondo è parte integrante del mio lavoro come coreografo e forse anche di essere umano.

Questa doppia entrata alla ricerca coreografica mi permette di porre in discussione sia me stesso sia la società che mi circonda. La visione che ho del mondo e della società è influenzata dalla visione del filosofo contemporaneo Zygmunt Bauman e dai miei studi di carattere scientifico e metafisico. Queste sono nozioni che non dettano leggi ma che creano una certa angolatura nel mio modo di guardare al mondo.
Sono interessato a lavorare sulla tessitura emozionale che si può generare tra un lavoro teatrale e il pubblico. Cerco un impatto di pancia, corporeo, sia nel mio lavoro di ricerca che nella reazione degli spettatori. Questa è una scelta che faccio per oppormi volontariamente a una cultura che spesso predilige l’aspetto cognitivo e razionale a dispetto di altre percezioni fisiche ed emozionali del nostro essere.

Ci sono dei modelli di riferimento, dei maestri, che hanno influenzato il tuo percorso e che ti hanno aiutato a creare una tua poetica personale?
Sono tantissimi gli artisti, insegnati e persone che hanno influenzato e segnato il mio modo di lavorare. Per citarne alcuni: David Zambrano e Deborah Hay che mi hanno ispirato a cercare la presenza corporea in ogni istante e in ogni singola cellula del mio corpo; Ria Higler che mi ha mostrato come tutte le tecniche di danza e teatro sono in realtà solo chiavi di accesso al corpo e non dogmi da dover inseguire, Simona Bucci che ha mostrato come un’analisi del movimento e della partitura coreografica possa diventare linguaggio oltre che esperienza cinestetica, mio padre che mi ha mostrato che un danzatore può anche essere semplicemente un corpo investito da onestà e desiderio che espone la propria urgenza.

foto©Musacchio & Ianniello

E per quanto riguarda invece le esperienze? Quali di queste si sono rivelate essere dei punti di svolta nel tuo percorso artistico?
La pratica che rappresenta da sempre la sfida più grande e che arriva con grandi ricompense è il tempo di lavoro: le ore nello studio. Ore passate a testare l’effetto di una parola, a cercare un’entrata energetica, a mettere il desiderio in movimento. È nello studio che scopro ogni volta che non ho imparato nulla e che il mio lavoro è quello di aprirmi, di affrontare la paura, di riconnettermi all’onestà. L’onestà è la prima cosa che fa subito a scivolare via; i danzatori – ma forse le persone in generale – sono bravissimi a raccontare e a raccontarsi delle gran balle.

Residenze, prove aperte, incontri con operatori, dialoghi con altri artisti, feedback esterni dal pubblico. Quanto di queste modalità di lavoro influisce sulle tue creazioni?  
Durante il processo di ricerca e sviluppo di un lavoro faccio spesso affidamento al dialogo con un drammaturgo. Credo che l’elemento fondamentale che questa figura apporta al processo di creazione è quella del dialogo. Poter esporre le idee, metterle a confronto con una persona con diversi parametri di misura e percezione, mi spinge alla ricerca di elementi universali all’interno delle mie personali fascinazioni. Lo stesso atto di chiarire a un’altra persona le idee crea chiarezza in me stesso. Ricevere domande da punti di vista diversi crea nuovi stimoli. Non sono alla ricerca di elementi esclusivamente concettuali ma la comprensione drammaturgica gioca un ruolo importante nel mio modo di lavorare. Accanto alle collaborazioni con esperti in drammaturgia lavoro con diversi artisti quali danzatori, musicisti e scenografi che hanno una propria visione critica del loro linguaggio. Questo crea spesso una ricchezza d’idee e informazioni durante il processo di lavoro. È essenziale per me lavorare con persone che abbiano a cuore l’evento teatrale come una tessitura di linguaggi per un’unica comunicazione. Questo richiede un rapporto di fiducia e coraggio. Definisco le persone con cui lavoro con il termine partner: il rapporto che instauro con loro assomiglia molto di più a una piccola relazione d’amore che a uno scambio professionale.

A quale aspetto del tuo lavoro di artista non riusciresti mai a rinunciare?
Vivo ogni mia creazione come atto di guarigione. Guarigione personale o collettiva. Non potrei mai rinunciare al senso di guarigione, unione ed evoluzione che ogni processo porta con sé.

foto©Musacchio & Ianniello

Cosa speri che si porti con sé uno spettatore dopo aver visto/partecipato/vissuto una tua opera?
Il desiderio più grande dietro ad ogni intervento teatrale e artistico è quello di creare un effetto di risonanza. Non importa come e in che modo ma mi piace molto quando il lavoro presentato è disponibile ad altre persone. Mi piace pensare che possa essere considerato come un nome, un’immagine o un sinonimo per alcune emozioni o stati che vivono nell’ombra nel nostro lessico.

Quando si riceve un Premio, in questo caso molto prestigioso come Danza & Danza, si dice che sarà da stimolo per far meglio in futuro. Quali sono i tuoi progetti?
Ricevere un premio è sicuramente un riconoscimento del proprio lavoro rispetto alla società. Questo è importante ma trovo che il dialogo con il singolo spettatore, uno scambio di mail personale a seguito di una presentazione o anche solo una conversazione nel foyer post spettacolo, rappresentino i premi più nutrienti per andare avanti.
I progetti da qui in avanti sono diversi. Sto lavorando a un nuovo lavoro per 8 interpreti che ruota attorno al tema delle relazioni danneggiate. La prima avverrà in Italia. Sempre quest’anno sarò alle prese con l’altra faccia della medaglia di Parkin’Son, il duetto con mio padre: lavorerò con una madre e sua figlia per esplorare ancora una volta l’universo del dialogo tra genitore e figlio, questa volta affrontando il tema da una realtà femminile. L’intento è quello di puntare l’attenzione sul dialogo tra diverse generazioni e la rottura dei tabù che appartengono alla categoria madri e figlie.

Intervista a cura di Carlotta Tringali

[Leggi l’intervista a Alessandro Sciarroni]

 

(43)