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Pro Patria di Celestini, un percorso tra le carceri

Pro Patria di Celestini, un percorso tra le carceri

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Non si poteva aprire meglio la rassegna TeatrOltre 2012: il primo appuntamento di un ricco programma che proseguirà fino a maggio ha visto Ascanio Celestini calcare il palcoscenico del Teatro Bramante di Urbania. Ed è stato un successo. Perché il suo è un teatro che va “oltre”, entra nella società, nel quotidiano, nella politica; parla degli uomini e dei loro diritti, in una maniera scomoda e favolistica, reale e utopica.

Dopo aver scritto libri, registrato dischi, esordito in qualità di regista cinematografico alla 67° Mostra del Cinema di Venezia e aver partecipato a programmi televisivi, uno dei più grandi narratori del nostro Paese torna al luogo che più gli si addice e che lo ha lanciato, il teatro.

Sempre con la stessa capacità ipnotica del suo modo di parlare, senza prendere fiato, sciorinando frasi pungenti velocemente e ripetutamente; come se ci fosse un refrain che torna, per sottolineare dei passaggi, per permettere agli spettatori di aggrapparsi a dei punti fissi dentro un monologo vertiginoso che alterna passato storico e presente, realtà e finzione.

Autore e narr-attore di quasi due ore dense di nozioni – mai propinate con altezzosità, ma piuttosto con ironia, semplicità e con quella cadenza romana che lo colloca dentro una dimensione popolare –, Celestini diventa in Pro Patria un ergastolano condannato «fino al giorno 99 del mese 99 dell’anno 9999», rinchiuso in una cella di due metri quadrati con un «negro matto» e soprattutto con Mazzini, il padre della nostra Italia, Paese che ha concluso da pochissimo i festeggiamenti per il 150esimo dalla sua Unità. Il detenuto-protagonista ha accesso solamente ai libri su Mazzini, che altri non è se non un fantasma, qualcuno a cui rivolgersi e con cui riflettere su quello che è successo durante la breve Repubblica Romana del 1849, gli anni del Risorgimento, i moti, Garibaldi, Pisacane, Pio IX, Federico II detto Re Bomba… Il tutto in un continuo scivolare avanti e indietro sulla linea temporale – o come la chiama l’attore «la finestra del tempo» – dove si intrecciano un passato storico contraddittorio e un presente pieno di sconfitte, «in una società dove solo pochissimi hanno le mele e tutti gli altri soltanto la fame».

Parla delle mele che si rubano perché si ha fame Celestini, parla di carcerati, di rivoluzionari sconfitti, di una società dove «i morti e gli ergastolani hanno una cosa in comune, non temono i processi. I morti perché non possono finire in galera, gli ergastolani perché dalla galera non escono più». Parla di detenuti, di umanità e di come chi ha i soldi in galera non entra. Sottotitolo dello spettacolo è senza processi, senza prigioni: il discorso – così si può chiamare, visto che lo stesso Celestini si allena per prepararne uno, quello da pronunciare per il suo ipotetico processo – verte proprio sulle condizioni disumane delle carceri italiane dove il 40% dei detenuti sono immigrati e il 30% tossicodipendenti e dove sempre più alto è il numero dei suicidi. Era questo che sognavano i padri del Risorgimento per il nostro presente?

Mentre Celestini parla si crea un immaginario quasi concreto, che si può toccare, dove i fatti evocati con poche frasi si palesano nella mente degli spettatori, creando un percorso visivo che accompagna la narrazione; nonostante sfiori fatti storici complessi e distanti tra loro, l’autore riesce a farli dialogare raggiungendo e aprendo delle strade che dapprima sembravano vicoli ciechi e che invece mostrano poi una via di fuga, una possibilità. O forse mettono solamente in luce una controvertigine, quell’attrazione verso il vuoto e la voglia di saltare giù e lasciarsi andare, che molto spesso appare protagonista del monologo. C’è implicita una voglia di scappare da un Paese che lotta da due secoli e che ha vissuto tre Risorgimenti: quello di Mazzini, quello dei partigiani e quello delle lotte armate, delle rivolte combattute dai figli. Celestini apre qui parentesi scomode e non sempre condivisibili, dove i terroristi degli Anni ’70 diventano eroi a cui dedicare strade, paragonabili a coloro che hanno lottato per l’Unità di Italia. Sono frasi provocatorie, scosse elettriche che scuotono nel processo lobotomizzante dei festeggiamenti pro Patria, in un momento storico che non sembra dimostrare di essere la realizzazione del progetto dei Padri di questo nostro PaeseEcco che a poco a poco passato e presente entrano in contraddizione tra loro, non dialogano più e ad aleggiare davanti alla finestra del tempo continuamente evocata da Celestini sono solo utopie.

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