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Sciarroni e Carotti: diario del workshop#2 di Sofa

Sciarroni e Carotti: diario del workshop#2 di Sofa

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Dove risiede il confine tra performance e immagine fotografica? Può un ritratto restituire un movimento, un’intenzione e un’esperienza privata? Domande legittime e che trovano interlocutori al workshop#2 organizzato dal Gruppo Baku di Jesi: un laboratorio di 3 giorni e della breve durata di 10 ore circa.

Avevamo lasciato lo Spazio Sofa affollato di gente il 9 marzo – dove è stato presentato il workshop#1 di video ed elettronica (leggi l’articolo) – e ci rientriamo silenziosamente il 20 marzo, primo atteso giorno d’avvio del workshop#2 di coreografia-fotografia. Curiosa la scelta di accoppiare le due diverse arti al punto di attirare ben 12 partecipanti arrivati dai dintorni della provincia anconetana per seguire gli insegnamenti di Alessandro Sciarroni, curatore della parte performativa, e Fabrizio Carotti per quella fotografica. Una messa in gioco che prova a raccontare fotograficamente il lavoro su se stessi, sulla propria dimensione performativa ed esplorazione interiore.

GIORNO 1

È dal proprio Io che Sciarroni fa iniziare l’esperienza laboratoriale: chiede una concentrazione sul momento presente, sull’attimo che si sta vivendo, molto difficile da fermare perché con la testa si è sempre portati a pensare al futuro o al passato, a persone o ad azioni da fare in seguito all’istante che effettivamente si sta attraversando. Per questo parte da una tecnica presa dalla regina della Body art Marina Abramovich e propone un esercizio semplice ma ben mirato: bere per dieci minuti un bicchiere d’acqua pensando intensamente all’azione che si sta compiendo.

Semplice a dirlo ma più arduo nel farlo: le distrazioni che tutti giorni entrano nel nostro quotidiano qui si allontanano per vivere l’istante presente. Trovata la concentrazione rivolta verso se stessi Alessandro Sciarroni accompagna i partecipanti all’interno di un viaggio dove ognuno recepisce gli imput dati dal performer e li traduce secondo la propria volontà, al fine di vivere il momento presente per creare una memoria dell’esperienza che si vive e delle informazioni che si accumulano sul proprio corpo. Dopo essersi focalizzati sul respiro, i giovani sono invitati a visualizzare la propria immagine che lentamente si stacca da se stessi: ne cercano la presenza, i contorni, la posizione di una figura che prende vita propria dopo il suo risveglio. Il viaggio che conduce Sciarroni sembra essere il percorso che si compie nei sonni astrali, dove il proprio Io, l’anima o spirito – a seconda delle credenze – si stacca dal proprio corpo per intraprendere la sua strada: al risveglio si percepisce di essere stati in luoghi di cui ne esiste il ricordo, ma che fisicamente non si sono visitati. L’immagine esterna, sfocata e dai contorni vividi, sempre seguendo gli imput del performer, cerca di mettersi in contatto con il corpo da cui si è staccata: ecco che si va creando una gestualità codificata ed enigmatica che solo dal singolo può essere compresa.

Una volta conclusosi il viaggio ciò che rimane è una comunicazione privata, il ricordo di una dolce esperienza che si conclude con un risveglio. Si parte da qui per compiere il passo successivo del laboratorio: attraverso la webcam di un computer, collegato a uno schermo più grande, ai partecipanti viene chiesto di riproporre quella gestualità privata con la propria immagine che va concretizzandosi grazie ai mezzi teconologici. Entrando nello spazio catturato dalla webcam, il corpo attraversa una soglia e la propria immagine si proietta sullo schermo: è un momento magico, in cui si scopre se stessi o l’altro da sé, in cui si può entrare in contatto con l’immagine astratta che prima era sfocata. Ora diventa presente e si cerca un dialogo tra corpo reale e immagine sì concreta, ma realisticamente virtuale.
L’uomo entra qui in rapporto con la scoperta di se stesso.

GIORNO 2

Se la prima giornata ha visto esclusivamente attiva la parte performativa, la seconda si apre all’insegna della fotografia. Tra le due forme artistiche si instaura un dialogo serrato, dove gli scatti  restituiscono poeticamente il lavoro fatto il giorno precedente.
Dopo aver dato alcune informazioni basilari sulle diagonali astratte che si creano in una fotografia –  come la direzione che lo sguardo seguirà nell’osservare un’immagine (per esempio se si percepisce una linea da sinistra verso destra in maniera ascendente la foto suggerirà una positività, contrariamente chiusura e angoscia) – Fabrizio Carotti invita i laboratoristi a pensare a dove e come si colloca l’altro da sé rispetto al proprio corpo. L’idea è quella di far apparire in una stessa foto la comunicazione e la gestualità che si creano tra l’immagine dell’Io e la persona fisica, utilizzando lo stesso codice privato che nel primo giorno Alessandro Sciarroni chiedeva di visualizzare nella propria mente. Ognuno dà una diversa interpretazione dell’immagine che si stacca dal corpo (chi la vede come la propria anima, chi come un altro da sé) e tenendo l’obiettivo della Reflex aperto per 30 secondi, si riesce a catturare la scia del movimento e del percorso che porta a questo distacco.

È lo stesso Fabrizio a spiegare il risultato «Per un’ora i partecipanti hanno lavorato con Sciarroni, che li ha guidati con le parole in un viaggio alla ricerca della propria immagine staccata dal corpo. Un’esperienza di concentrazione in cui gli allievi hanno intrapreso un dialogo fisico con la proiezione immaginata del proprio corpo. Dopo quest’ora ho proposto loro di descrivere l’esperienza fatta, tipo com’era la propria immagine e come la vedevano una volta abbandonata. Poi ho creato un set in cui ognuno di loro doveva rappresentare fotograficamente se stesso e la propria immagine (interpretata come doppio, come anima o come volevano). Per fare questo ho impostato i tempi di scatto a 30 secondi e ho chiesto di posare 15 secondi come fossero se stessi e gli altri 15 come vedevano la propria proiezione-anima. Da lì abbiamo sperimentato tempi diversi.»

Ogni partecipante gioca con la propria immagine che si allontana dal corpo, c’è chi la vede baciare il proprio corpo, chi allontanarsi senza voltarsi, tendere la mano, immobile a guardare; c’è anche chi la vede come una sorta di angelo custode, a vegliare amorevolmente il corpo che dorme.

Conclusasi la parte fotografica, si ritorna con Alessandro a riflettere su cosa li ha colpiti il giorno precedente nel momento in cui l’Io incontrava sullo schermo la propria immagine duplicata. Ecco che i sorrisi e i primi piani ingranditi della propria faccia o il palesarsi per la prima volta delle mani, e successivamente dell’intera figura, diventano i momenti rammentati. Colpisce anche l’interazione di due corpi posizionati contemporaneamente uno molto vicino alla webcam o l’altro lontano: grazie all’appiattimento digitale si crea sullo schermo una vicinanza non reale ma curiosa e magica dove le mani grandi in primo piano avvolgono completamente i performer in secondo o terzo piano, li accarezzano, li incontrano. Il video esalta una comunicazione fisica virtuale, come nel caso del viso negato allo spettatore nella dimensione reale – dato che ci si posiziona di spalle alla platea e frontalmente alla telecamera – ma mostrato virtualmente attraverso la webcam: il video mi dà possibilità che nella realtà non ho.

GIORNO 3

Il giorno prima dell’apertura al pubblico e della dimostrazione di queste ore passate a sperimentare tra coreografia e fotografia si iniziano meglio a capire i funzionamenti del video e le possibilità della fotografia. Le foto si rifanno, con ulteriori accorgimenti e maggior consapevolezza del tempo di scatto e con alcuni oggetti che portano colore (un palloncino rosso, un mazzo di fiori…), speranza (una candela) o aprono a mondi magici (una pietra verde). Si realizzano anche le foto di gruppo, ma queste raggiungono un’intensità minore, forse dovuta al fatto che in fondo il rapporto con il proprio Altro da sé è più forte se presa singolarmente.

Con Alessandro Sciarroni i partecipanti decidono come sviluppare la performance in cui mostreranno loro stessi al pubblico. Ma non si fissano i movimenti o le immagini da creare: piuttosto si cerca di utilizzare al meglio le relazioni che si vanno creando grazie allo schermo e alla webcam che altera il corpo. Ecco infatti che entrano in gioco degli effetti, propri di un programma del computer, che modificano l’immagine: le braccia, una volta entrate nello spazio della proiezione, si restringono in un processo centrifugo o si staccano dal corpo e si raddoppiano; si creano visi degni di un Picasso o figure mitologiche dove il busto è eretto e la parte inferiore ricorda un centauro; gli effetti di luce, ancora più accentuati se si indossano magliette colorate o a righe, rendono una atmosfera sognante e sospesa. Le musiche scelte – dalle sonorità rilassanti ed eteree di Jónsi & Alex, a quelle elettroniche giocose di Bjork o meccaniche di Portishead fino alle nostalgiche e dolcissime melodie di Coner Oberst – accompagnano l’interazione tra corpi fisici e virtuali e da un certo punto di vista la conducono quasi.

Si gioca e ci si diverte davanti al video; si sperimenta da soli e insieme di fronte alle grandi alternative dello schermo: si dimenticano le interazioni reali e si scoprono quelle infinite del mondo artificiale. Ci si concentra sull’immagine proiettata e ci si perde nella sua fascinazione: il contingente si allarga fino ad abbracciare le sue impossibilità.

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