Prima nazionale a Fermo per “Battlefield” di Peter Brook
Un grande onore è stato per le Marche ospitare la prima italiana dello spettacolo Battlefield, diretto dal grande maestro Peter Brook, andato in scena al Teatro dell’Aquila di Fermo il 6 e 7 maggio. Il regista britannico assieme alla sua fedele collaboratrice Marie-Hélène Estienne decidono di riprendere quell’opera che trent’anni prima, nel 1985, al Festival di Avignone, si era imposta come un vero e proprio manifesto del teatro d’avanguardia, il Mahabharata. Tratto dal monumentale poema epico indiano, filtrato dalla penna di Jean Claude Carrière, lo spettacolo della durata di 9 ore, metteva in scena la guerra fratricida tra i due discendenti della famiglia Bharata: i Kaurava e i Pandava. Una lotta straziante e interminabile per la conquista del regno che culminerà in una vera e propria carneficina, la quale porterà i vincitori – chiamati a dominare un regno di morte e distruzione – a scorgere nella vittoria i segni evidenti della sconfitta, e coloro che sono stati vinti a tormentarsi per non essere stati in grado di evitarla.
Oggi Peter Brook ritorna sul Mahabharata ma lo fa in maniera diversa: non è infatti la lotta tra famiglie a essere rappresentata; questa volta il drammaturgo si concentra su un singolo frammento: il momento che segue il massacro, quel momento in cui le due parti si interrogano sull’eredità disastrosa che la guerra ha lasciato dietro di sé. Evidenti e dichiarati sono gli intenti di riflessione sul nostro presente e sui grandi conflitti che lo attraversano, così come lo furono nel luglio avignonese dell’85. Tuttavia, la scelta di rappresentare proprio l’episodio conclusivo dell’opera, il triste esodo della guerra, ci rivela che nei trent’anni che separano le due messe in scene , il punto di vista dell’autore è cambiato: lo spirito ottimista che all’epoca sembrava emergere cede il posto a uno sguardo cinico e disincantato che si impone alla visione dello spettatore prefigurando scenari catastrofici, creati dal continuo e inevitabile ciclo di conflitti umani che, secondo Peter Brook, non avrà mai fine.
La ripresa del poema indiano si pone, dunque, come una risposta all’emergenza del momento storico attuale, ci disegna il ritratto di un’umanità lontana dalla ricerca del dharma, dell’ordine, unicamente tesa verso l’autodistruzione. La lettura al pubblico di questo orrendo testamento dell’uomo diviene per l’autore un’urgenza, una necessità, che si traduce in scelte di messa in scena radicali, volte all’eliminazione di ogni componente scenica superflua per un recupero dell’essenziale: l’elemento umano. Quattro attori in scena costituiscono un cast multiculturale dalla straordinaria capacità interpretativa, tale da riempire con la parola il vuoto dello spazio scenico: Jared McNeill protagonista vittorioso, Carole Karemera la madre colpevole, Sean O’Callaghan il re cieco e Ery Nzaramba a rappresentanza delle vittime cadute. La preponderanza dell’estetica scenica che aveva caratterizzato il primo Mahabharata in Battlefield sparisce completamente per rendere preponderante il contenuto filosofico; di scenografia non vi è quasi traccia, a eccezione di alcuni bastoni che poggiano sul fondale, delle coperte dai toni caldi e della presenza costante, suggestiva e imponente del musicista Toshi Tsuchitori che, con il tocco del tamburo giapponese, ci restituisce gli accenti acuti e gravi dell’intera partitura drammaturgica. Con Battlefield Peter Brook concretizza tutte le teorie fondanti l’idea di teatro puro, del teatro di parola espresse nel suo celebre scritto La porta aperta e l’idea del teatro sacro, ruvido e immortale di cui parlava ancor prima ne Lo spazio vuoto. Il drammaturgo porta la sperimentazione e la ricerca di nuovi linguaggi al suo punto più alto: i pochi elementi ammessi sulla scena si caricano di significati simbolici chiari e precisi, grazie ai quali lo spettatore può con facilità ricostruire tutta la complessità dell’ambiente cui l’autore fa riferimento, uno scenario arido e degradato. Ed ecco che un pezzo di stoffa può diventare un verme o un corso d’acqua e se avvolge il volto di un personaggio può arrivare a rappresentare persino la peggiore malattia dell’uomo moderno: l’indifferenza. Lo spettatore, dunque, attraverso la facoltà immaginativa e creativa, viene chiamato a farsi parte attiva e a dare un apporto rilevante all’intero momento scenico; anche in Battlefield si mantiene ben saldo quel rapporto indissolubile tra l’attore, il testo e il pubblico che rappresenta l’essenza stessa del teatro di Peter Brook.
Ciò che rimane da chiedersi è quale sia il reale intento che si cela dietro l’intera messa in scena: un invito all’azione da parte del singolo e da chi occupa i più alti vertici del potere? O un’amara e inevitabile accettazione dello stato presente delle cose? All’autore non interessa dare soluzioni salvifiche né proporre armi che possano fermare il genocidio dei migranti, gli atti distruttivi di un popolo spinto dalla cecità della propria fede o la manifestazione quotidiana di quella parte di male che l’uomo porta con sé; il grande invito che egli ci porge è quello di avere il coraggio di guardarli in faccia, di accorgerci di loro e di abbattere il muro dell’indifferenza che non ci permette di vederli.
Valentina Cirilli
(31)