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Parkin’son: incontro con Giulio D’Anna

Parkin’son: incontro con Giulio D’Anna

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I ragazzi di Scuola di Platea – il progetto per le scuole superiori di AMAT che prevede un incontro propedeutico alla visione di uno spettacolo di teatro e successivamente l’incontro con la compagnia – hanno assistito a  “Parkin’sondi Giulio D’Anna, vincitore del Premio Equilibrio 2011, andato in scena a San Benedetto del Tronto il 21 marzo.
L’incontro con il danzautore e performer D’Anna, mediato dalla responsabile del progetto Scuola di Platea Daniela Rimei, ha portato alla luce diverse curiosità  e domande degli studenti che qui registriamo…

Ci racconti la necessità che ti ha spinto nel 2010 a realizzare Parkin’son e come ha risposto la danza a questa tua necessità di vita?

Giulio: L’idea di fare un lavoro con i miei genitori era lì nella mia testa da diversi anni (2005-2006) perché con il tipo di teatro che faccio utilizzo sia professionisti sia persone che io definisco “corpi danzanti non convenzionali”, ossia corpi che danzano, che si muovono e che possono raccontarci una storia ma che non necessariamente sono dei professionisti.
Poi sono passati diversi anni fino a quando nel 2008/09 a mio padre è stato diagnosticato il Parkinson che in qualche modo ha messo un orologio nella mia testa. Ho sentito l’idea di temporalità e il fatto che le cose terminano, nonostante l’avessi sempre saputo: è diventato tutto molto più concreto ed è scattata l’idea. Ho pensato di concentrarmi solo su mio padre, per diverse ragioni e per la particolarità della sua condizione di malattia. Inoltre quando ho iniziato il lavoro chiamavo la mia ricerca “conversazioni maschio-generazionali”: avere mio padre in scena con me era già un’installazione biologica; avere solo due corpi legati dal sangue con 30 anni di differenza di per sé è un dato di fatto da cui non si può scappare. Poi rientrano anche discorsi personali, come il desiderio di conoscere mio padre: sono tante le informazioni che magari si conoscono ma con cui non ci si riesce a relazionare “con la pancia” per un discorso generazionale. All’inizio per mio padre, che ha un’idea del teatro più classica, è stato difficile accettare che potesse essere su un palco e così gli ho detto che questa era l’ultima cosa che poteva fare per me e lui ci si è buttato a capofitto. In seguito è successo che ero stato invitato a fare domanda per il Festival Equilibrio, vetrina per giovani coreografi italiani in cui la selezione avviene solo su concept e precedenti lavori: mi hanno selezionato e dovevo presentare uno schizzo dello spettacolo; abbiamo lavorato una settimana nella mia vecchia scuola di danza a S. Benedetto e una settimana ad Amsterdam. Abbiamo presentato il lavoro e abbiamo vinto:  la giuria forse ha capito l’urgenza.

foto©Musacchio & Ianniello

una insegnante: Quando mi sono seduta, sono rimasta spiazzata (un po’ l’abitudine a un altro tipo di teatro…) perché non mi aspettavo te e tuo padre sul palco vestiti in quella maniera. Poi man mano lo spettacolo mi ha preso sempre più, non riuscivo più a staccare gli occhi da voi due e dal modo in cui vi muovevate. Alla fine mi sono commossa, mi vergognavo di questa commozione perché ci ho rivisto il mio rapporto con mio padre. Ho rivissuto la malattia e mi son chiesta: questo rapporto con tuo padre l’hai costruito ora da adulto o è conseguenza di un legame profondo che tu hai avuto con tuo padre fin dall’inizio? Io mio padre l’ho amato e conosciuto meglio in malattia, però vedendo lo spettacolo mi son fatta tante domande…

Giulio: Il rapporto non è stato sempre così. Come avete potuto sentire dalla storia, c’è stato parecchio dramma nella mia adolescenza, per un discorso di diversità personale, orientamento sessuale e soprattutto religioso. Quando sono andato via per studiare all’università è iniziato un periodo di drammi in cui io non ho rivolto parola a mio padre: in ogni caso una reazione forte e non indifferente. Il rapporto, così come ora, non mi sento di dire che l’abbiamo costruito solo adesso; credo che chiunque siamo adesso sia per un accumulo di cose che sono avvenute nella nostra vita, positive o negative, e credo che valga per chiunque di noi in diverso ambito. Il rapporto, così com’è, è frutto di un percorso che è iniziato 31 anni fa, non siamo stati padre-figlio modello da sempre. Osservare tutto questo, anche attraverso gli occhi di altre persone, mi fa notare come nella vita non c’è niente di fermo o prestabilito. Non che questa consapevolezza distrugge le proprie convinzioni, ma l’unica cosa che rimane è vivere il momento pienamente.

Credo che lo spettacolo abbia travalicato la malattia e si sia fatto un racconto universale, il racconto di un padre e di un figlio che cercano un rapporto e un incontro nella fatica di costruire un abbraccio. Tutto questo con la presenza dello scorrere del tempo, scandito dai battiti del cuore, per arrivare a quello che dice Giulio, al fatto che tutto cambia. Secondo me lo spettacolo è importante e interessante perché non è ricattatorio, non si fonda soltanto sulla malattia, ma diventa anche una riflessione sulla vita e sul fatto che siamo qui per poco ed è tutto talmente in movimento che non vale la pena rimanere fermi nemmeno sulle nostre convinzioni…

uno studente: Nel complesso lo spettacolo è stato molto soddisfacente, tuttavia ci sono stati dei punti in cui mi sono sentito un po’ confuso perché non riuscivo a seguire lo spettacolo. Per esempio quando vi siete picchiati, non comprendevo questo gesto; successivamente, forse ora, comprendo che magari poteva richiamare questo periodo in cui lei e suo padre non andavate d’accordo. Non è una critica ma un punto di vista, forse lo spettacolo è complesso, non molto chiaro e delle parti possono confondere lo spettatore.

Giulio: Questo va bene, per me non bisogna comprendere tutto. È una ricchezza, il tipo di teatro che vi ho presentato non si basa su un genere esistente, posso dire che “mi devo inventare tutto”. Mi chiedo come posso far arrivare un certo tipo di emozione, o se io voglio comunicare un colore emozionale piuttosto che un pensiero: in fondo è il lavoro che fanno tutti gli artisti con una pittura, una poesia,  o con i vostri temi durante le lezioni di letteratura.

Alcune persone mi hanno detto che un ragazzo di 30 anni che schiaffeggia un signore di 60 è sbagliato per la differenza di età, è una mancanza di rispetto verso un anziano e questa è una reazione “di testa”; altre persone mi hanno riferito che non potevano guardare, provavano dolore: queste sono quelle che io chiamo reazioni “di pancia”, che secondo me appartengono alla comunicazione teatrale a prescindere da quello che la testa dice. Come coreografo volevo dare alle persone la possibilità di sentire alcune cose che appartengono alla mia comunicazione, metafora di alcuni momenti in cui una parola, un gesto, un’azione danno l’effetto di un pestaggio. È un riportare un farsi del male: non necessariamente volevo raccontare che in merito a un determinato evento abbiamo avuto una grossa lite. Il tipo di teatro che sto facendo si muove tra la comprensione (che potrebbe essere il contenuto o testo drammatico) e il testo scenico, cioè quello che succede sul palco (quella scena che ho messo in fondo se l’avessi messa di fronte sarebbe arrivata in un altro modo, se avessi messo una luce rossa avrebbe detto un’altra cosa ancora). Non sto dicendo che la mia decisione è quella perfetta, è quello che ho pensato di fare io. Importante è che quando si prova confusione, o si provano delle emozioni, non si deve pensare “ok, questa è la mia reazione personale, ma che cosa volevi dire”; il teatro significa anche questo: dire “non ho capito ma mi ha incuriosito”. Credo sia importante permettersi di leggere quello che succede dentro, “nella pancia”, nelle emozioni, oltre il senso di ammirazione per lo studio e per quel virtuoso che magari c’è dentro lo spettacolo, ma che non dà necessariamente qualcosa per la tua vita.

Il teatro mi ha fatto crescere molto: ci sono delle scene o dei tipi di contatto delle volte che creano in me attrito o sofferenza; ma questa è la mia reazione a quel materiale e non significa che l’insofferenza, il nervoso o la frustrazione siano sbagliate; non devo necessariamente essere emozionato solamente di fronte a ciò che trovo “bello”. Quando qualcosa mi dà fastidio vado a indagare: perché mi dà fastidio, cosa c’è dietro, dove lo riconosco nella mia vita. Ci vuole molto più coraggio a dire “questa cosa mi ha fatto sentire così” che non dire solo “bello”: richiede più autoanalisi ma nel tempo questa informazione poi la ritrovate da qualche parte nella vostra vita.

una studentessa: A me non è piaciuto lo spettacolo, più che altro il linguaggio della danza non mi ha dato quasi nulla, preferisco un altro tipo di linguaggio, come quello parlato; la danza così a nudo, in tutti i sensi, è stata poco significativa per me. L’unica scena che mi ha toccato è stata quella in cui imitavi un malato di Parkinson – quando poi tuo padre ti ha messo la maglia rossa – quella scena è stata la più indicativa secondo me

Che tra l’altro è il momento di danza che più di danza non si può…

Giulio: Se ti dicessi che non è uno spettacolo di danza ma una performance dove due persone sono su un palco e raccontano una storia? Non devi cambiare idea, ma può questo farti cambiare prospettiva sulla cosa? Se tu non avessi l’aspettativa di uno spettacolo di danza…

la studentessa: Scusami, è il linguaggio del corpo che non mi ha convinto più che il linguaggio della danza…

Giulio: Posso dire che sei affascinata dal linguaggio ordinario del corpo, ossia quando vedi un corpo che di solito non vedi, cose che ti tolgono il fiato (cinque giri su una punta per esempio…) penso che questa cosa forse ti emozioni di più….

la studentessa: …Quella scena mi ha colpito perché è la riproduzione di una cosa che non ti appartiene, hai imitato tuo padre…

GiulioProbabilmente quello che ti ha entusiasmato è la capacità di vedere una persona entrare in altri panni: c’è un virtuoso, c’è uno studio della persona – perché in fondo è dalla mia pelle che è uscita quella cosa lì.

uno studente: A me è piaciuto un sacco dall’inizio alla fine. I pezzi in cui vi picchiavate sono i più significativi perché lì si afferra che questo spettacolo è una metafora della tua vita, però in funzione del rapporto con tuo padre. Quello che non mi è piaciuto – che forse era un po’ più implicito – sono stati i passaggi in cui non danzavi ma componevi delle forme con tuo padre: il messaggio era un po’ meno diretto e meno facile da capire. I momenti in cui vi picchiavate erano più chiari: si capisce dallo spettacolo che il rapporto con tuo padre non è stato sempre idilliaco. Ho compreso la fase della composizione delle forme ma è stato più difficile (non ho compreso tutto, non si comprende mai tutto di una cosa artistica, perché chiunque potrebbe capire molto più di me o capire diversamente). Quello che mi ha trasmesso la tua performance è stato questo grande rapporto con tuo padre, rapporto ritrovato, e soprattutto la sola grande voglia di vivere.

uno studente: A me ha colpito molto il rapporto con tuo padre. Ho notato che all’inizio non c’era un litigio, non c’era una relazione, non vi toccavate. Poi si passa a un gioco da bambini, cioè tu e tuo padre vi date uno schiaffo e dite “stop finito”, passate ad altro, a un altro litigio. È un rapporto che si sente molto vicino ai nostri tempi. Quelle scene in cui tu e tuo padre facevate quelle forme, eravate una cosa sola, non è una riappacificazione, ma un unirsi: è il rapporto con il padre che tutti dovrebbero avere, diventare una cosa sola (non due cose diverse, due amici…). Come quando tu hai iniziato a parlare della tua vita, del tuo futuro e tutti noi aspettavamo la morte di tuo padre: vai avanti con gli anni e io nel 2030 aspettavo la morte di tuo padre mentre tu nel 2060 dici “io muoio tra le braccia di mio padre, perché mio padre non mi ha mai abbandonato, è con me perché ha cambiato la mia vita”. Come quando tu, interpretando la malattia di tuo padre, ti sei immedesimato in tuo padre, sei diventato tuo padre, hai vissuto la malattia di tuo padre e tuo padre ha cambiato te, ha fatto di te una persona diversa e ce l’avrai con te per tutta la vita. Questo spettacolo mi ha fatto capire qualcosa, ossia che quello che dicono i nostri genitori dovrebbe cambiarci veramente, non dovremmo rimanere impassibili davanti a quello che ci raccontano… Secondo me è stato uno spettacolo fantastico, mi aspettavo molto peggio!

Giulio: Grazie! La cosa interessante è “comprendo però sotto cosa c’è”. Io sono un coreografo e ho determinate cose da dirvi e lo devo fare nello spazio e nel tempo attraverso i corpi. Durante il processo di creazione mio padre mi ha chiesto “Quando è che c’è danza nel nostro spettacolo di danza?” Ma per me era danza già quella che stavamo facendo. La mia intenzione è comunicare, poi che lo faccia attraverso la voce, attraverso un movimento semplice o straordinario dipende dal tema che sto trattando. La scena in cui danziamo è il momento più complesso dello spettacolo: perché sono arrivato a quel punto? Il primo motivo è il fatto che mio padre abbia chiesto “la danza delle belle forme” – e questo è il massimo che ho potuto raggiungere con mio padre senza entrare nel ridicolo –; inoltre per me era molto interessante dare al pubblico un altro linguaggio, un linguaggio estetico dopo che avevo informato il pubblico sulla visione che ha mio padre della danza (dove mio padre rappresenta non il frequentatore del teatro contemporaneo d’avanguardia ma semplicemente uno spettatore non abbonato): mio padre rappresenta un’idea di danza. Per me quel momento diventa un commento sulla danza perché non solo faccio un cambio di marcia e do totalmente un altro linguaggio, ma lo metto in contrapposizione a tutto ciò che è stato prima, quindi do la possibilità allo spettatore di riflettere su quello che è il linguaggio del corpo, di interrogarsi su quali sono le aspettative di danza di ognuno di noi. Cosa succede se la stessa cosa la chiamiamo performance? Cosa succede se vi dico Il lago dei cigni è un pezzo di teatro? Voi vedrete Il lago dei cigni attraverso il dramma scenico dei personaggi, perché la vostra mente, come windows, apre una finestra ed elabora quello che vede attraverso un programma. Credo che il teatro sia uno dei media più forti per creare relazione e per la capacità che offre di riflettere sulla relazione. Il teatro mi permette di guardarti negli occhi, è qui ed ora; è uno spazio per riflettere su quello che sta succedendo adesso.

Io mi sto interrogando su quello che non si capisce e quello che non piace. Mi pare che in questo momento le due cose coincidano, non ti piace quello che non capisci.

Giulio: È umano. È scientificamente provato che l’essere umano ha una reazione di piacere nei confronti del riconoscimento. Per esempio al momento che c’è una moda noi ci vestiamo secondo quei canoni, non perché siamo delle pecore, ma perché c’è una naturale e sincera reazione di “mi riconosco”. Siamo geneticamente programmati per creare riconoscimento, quindi abbiamo la memoria; e c’è una reazione di piacere, un rilascio di endorfina nel corpo nel momento in cui riconosciamo. Il fatto di riuscire a leggere un codice – un tipo di musica, di ballo – mi dà la possibilità di creare paragoni, ma questo è riconoscimento e non significa che ci sia per forza esperienza. Il discorso mi piace/capisco vanno di pari passo.

una studentessa: Nelle parti di danza non mi è arrivata tanto la malattia perché tuo padre dava prova di grande forza. Solo alla fine mi è arrivata la malattia, quando lo prendevi in braccio. Il tema principale era la vostra storia o era il parkinson?

Giulio: Mi rendo conto che il titolo crea forti aspettative. L’apostrofo di Parkin’son è un gioco di parole. Quando ho intervistato mio padre e gli ho chiesto di parlare del rapporto padre-figlio, mio padre ha detto:« il ruolo di un genitore è di sistemare le cose bene per il figlio perché poi ce ne dobbiamo andare; è come se lo parcheggiassimo sul pianeta». Il mio cervello lavora un po’ più in inglese che in italiano e Parking in versione americana, dove la” g” viene omessa, indica il figlio che viene parcheggiato (Parking son), cosa che all’estero è immediata e invece in Italia si perde. Il pezzo che porto sul palco non è sul parkinson: mi sono documentato perché credo che la condizione di mio padre sia molto chiara e crea un interesse e una domanda sul pubblico. Non ho voluto fare un pezzo sul parkinson, quello che volevo mettere in scena è la relazione tra un padre e un figlio e i diversi drammi.

Ci sono tante cose nello spettacolo che non ho spiegato e confido nell’intelligenza o nella voglia di capire del pubblico.
Mi trovo nella situazione che se spiego tutto condiziono troppo la mente dello spettatore a seguire una logica; affidandomi al piacere del riconoscimento io non concedo allo spettatore di permettersi di sentire, di entrare e di metterci del suo. Si perderebbe l’interrogarsi su una scena e si perderebbero le singole percezioni.
Sono tutte informazioni vere quelle che ho messo in scena. Secondo me una storia non va compresa in ogni suo singolo dettaglio: ci può essere un filo rosso ma i singoli episodi che rendono la mia vita unica ma anche banale non devono essere troppo analizzati. Mi hanno consigliato di leggere Vite di uomini non illustri di Giuseppe Postiggia e le storie dei personaggi non sono storie di amori enormi, c’è un vissuto quotidiano, è molto vicino a quello che poi può essere la mia vita. L’idea di rendere speciale qualcosa di banale. Questa è la mia vita, te la apro, ma è anche una vita che può appartenere a mille altre persone.

una studentessa: Rispetto a quello che dicevi prima ciò che capiamo è ciò che ci piace, io ho avuto la sensazione opposta. I passaggi che non avevo capito sono quelli che mi sono piaciuti di più, non perché quello che mi ha trasmesso era bello, in realtà le scene familiari private vederle fatte da altre persone mi hanno imbarazzato. Non ero venuta a vedere danzare in modo convenzionale, volevo vedere come hai fatto muovere tuo padre che non aveva mai danzato. Non hai catturato la mia attenzione quando ballavi tu, ma cosa una persona che non balla può fare sul palcoscenico.

uno studente: Non hanno fatto teatro, loro hanno messo in scena loro stessi, le emozioni che hanno provato. Non è la danza quello che mi ha colpito, ma i sentimenti che mi ha trasmesso. Non trovo quindi il motivo per cui discutere sul fatto della danza o della non danza.

Giulio: Anche quando vado a teatro e vedo qualcosa che comprendo ciò che mi rimane per sempre non è la comprensione, ma l’emozione, il sentimento che ci ho riconosciuto. Tutto il resto è un codice, ciò che rimane è il movimento, la relazione che mi fa pensare a qualcosa di personale.
Credo che sia questo quello che debba fare la cultura, a prescindere che io mi ricordi o meno una data di nascita (ad esempio la data di nascita di Leopardi), mi porto a casa una parola, un’emozione che io posso riutilizzare e ricercare nelle mie azioni del quotidiano.

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