Non è uno spettacolo comune A.H. di Antonio Latella, andato in scena al Teatro Sperimentale di Ancona il 27 gennaio per Prima.Vera.Scena – rassegna di teatro contemporaneo di Teatro Stabile delle Marche, Comune di Ancona e Amat – e al Teatro Sanzio di Urbino il giorno successivo nell’ambito della decima edizione di TeatrOltre – sostenuta da Comune di Pesaro, Comune di Urbino, Fondazione Teatro della Fortuna di Fano, Comune di Urbania e Comune di San Costanzo e Amat.
Le sensazioni suscitate da questa opera si attaccano alla pelle e alla mente, non riescono a scivolare via, sono forti e significanti. Rimangono frammenti di frasi, gesti e parole, balbettii e rumori che ricorrono nei più intimi pensieri, trascinano dentro un antro mentale buio e vuoto, sconosciuto, estraneo. A.H. spinge lo spettatore verso una condizione mentale e fisica difficile da descrivere, è un malessere angoscioso e ruvido, è un ghigno stridente. È un lavoro che non lascia indifferenti, colpisce, affonda e gira la lama in piccole fessure – non tanto ferite, perché queste ultime bisognerebbe aprirle, qui si tratta di una condizione interiore innata –; indaga un terreno oscuro, amaro, incomprensibile ma affascinante come quello del male. Perché A.H. sono le iniziali di Adolf Hitler e Adolf Hitler è l’emblema del più grande male che ha colpito l’Europa nel Novecento.
In scena un uomo solo, Francesco Manetti, che urla parole che mettono a disagio, con occhi psicotici che indagano lo spazio in un frenetico roteare che segue gli ansimi e le posture animaleschi. C’è chi resta inchiodato e chi infastidito, chi si perde nelle reiterazioni gestuali e chi negli incredibili movimenti corporei di Manetti trova lo strumento, trova la strada per provare a comprendere, provare a capire perché e da cosa nasce il male. La magnifica prova attorale – che in realtà va oltre essere una prova d’attore perché non c’è recitazione, non c’è parte, ma destrutturazione di linguaggio, movimento, parola – risalta per la sua capacità di mettersi a disposizione, di divenire lo strumento principale di trasmissione: il suo corpo è un imbuto attraverso cui passa il male di tutto il mondo.
Ecco alcune riflessioni di giovani e giovanissimi che hanno assistito allo spettacolo:
“La scelta di mettere un uomo solo sul palco e la scenografia così scarna hanno contribuito a focalizzare l’attenzione solamente su ciò a cui voleva indurci l’attore sul palco, sul messaggio violento, e al tempo stesso semplice, che ci è stato messo davanti. Siamo abituati a vedere delle scene troppo ricche, troppo piene e confusionarie, una realtà troppo spesso banalizzata e alterata dalla voglia di spettacolarizzazione. Diciamo che lo spettacolo non ci ha lasciato vie di uscita di pensiero; nei pochi momenti in cui la mente poteva allontanarsi dalla cruda realtà spiegata in scena, la nostra attenzione veniva immediatamente richiamata dalle scelte dei suoni, delle voci, degli spari mandati in scena. È stato semplicemente l’uso corretto di uno strumento umano come il teatro a farci riflettere su ciò che molto spesso pensiamo di conoscere, come il male e la sua realizzazione più grave, la Shoah, che non è come spesso ci appare. Ce la presentano sempre come sì, una cosa brutta, ma alla fine è solamente utilizzando un modo diretto e violento, come è appunto stato lo spettacolo, che riusciamo a farci un’idea di come la “sorpresa” abbia colto le vittime di questo momento umano terribile. Ecco, posso dire di essere rimasta turbata da questo spettacolo soprattutto per non aver avuto vie d’uscita ed essere stata costretta a vedere il male in tutte le sue forme e avvilimenti. Devo ancora scuotermi dal torpore che la consapevolezza porta con sé!”
Rachele Morelli, 18 anni
“Ieri sera abbiamo lasciato la platea riflettendo molto, interiormente… Non ci sono stati commenti del tipo “piaciuto, non piaciuto”, non credo che l’emozione che ha trasmesso l’attore Manetti possa decodificarsi in semplici complimenti… Io personalmente ho avuto i brividi dall’inizio alla fine, uno spettacolo immenso che arriva dritto allo stomaco, che ti smuove e ti porta a riflettere, in modo anche violento… Non è Rai Storia! E per fortuna! Che dire ancora? Sarebbero tante le cose su cui confrontarsi dopo questo spettacolo! E allo stesso tempo fa anche venire la necessità di parlare con se stessi… Questo è il mio pensiero, è stata una grande occasione per crescere.”
Emanuele D’Ancona, 23 anni
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