Gianni: le tante voci di un eroe dei nostri tempi
Grande e calorosa l’accoglienza da parte del pubblico del Teatro Lauro Rossi di Macerata per Gianni, l’ultimo promettente lavoro dell’attrice e autrice Caroline Baglioni e del regista Michelangelo Bellani, vincitore di due prestigiosi premi teatrali, Premio Scenario per Ustica 2015 e Premio In-box Blu 2016. Andato in scena il 26 gennaio, lo spettacolo nasce da una sapiente e tenace manipolazione di una materia intima e autobiografica della stessa Caroline Baglioni che, a partire dalla voce dello zio Gianni Pampanini, catturata dai nastri di alcune audiocassette trovate per caso, ricostruisce l’intero universo di una personalità tanto affascinante quanto tormentata. Gianni è lo zio affetto da disturbi maniaco-depressivi, una presenza che all’età di 13 anni irrompe nella vita dell’autrice, nella vita di colei che deciderà poi di raccontarlo (e forse chi lo sa?) di assecondare una probabile volontà di Gianni di farsi testimonianza per chi, come noi, lo ha potuto ascoltare. In scena un solo personaggio, Caroline nei panni di Gianni, o meglio “in his shoes”, – poiché non vi è scenografia all’infuori di un’evocativa distesa di scarpe disseminate sul palco, alcune delle quali appartenenti al protagonista. Un’attrice alle prese con un lungo monologo che non può fare a meno di mettere in mostra le sue straordinarie capacità recitative e danzanti.
Anche Gianni rientra all’interno della rassegna Gente di Teatro – promossa da Comune di Macerata e AMAT – che prevede una serie di appuntamenti dedicati a tutti gli amanti del teatro, per approfondire la conoscenza dello spettacolo dialogando con accademici, giornalisti e artisti in scena al Teatro Lauro Rossi. L’occasione offerta dalla compagnia di incontrare il suo pubblico, qualche ora prima dello spettacolo, ci illumina sugli aspetti drammaturgici che fanno da sfondo alla messa in scena e ci rivela la puntualità e il rigore di una partitura drammaturgica costruita nei minimi dettagli: come lo stesso Michelangelo Bellani ci ha dichiarato, «ogni gesto, ogni sguardo di Caroline è stato deciso e studiato a tavolino durante la fase di allestimento». I nastri originali incisi da Gianni, inoltre, costituiscono già di per sé un materiale perfettamente compiuto che sembra essere stato pensato e costruito per la messinscena.
Lontana da qualsiasi proposito di mera imitazione, l’attrice si fa mezzo e strumento del disagio di un personaggio che, affetto dal moderno “tumore dell’anima“, ci racconta un’epoca controversa, quella degli anni ’80, quando la tv e gli altri media entravano nella vita delle persone per dare il via a quella rivoluzione antropologica degli italiani, così ben indagata da un intellettuale come Pier Paolo Pasolini, che porterà di lì a poco all’irreversibile processo di omologazione culturale che ancora oggi affligge il nostro presente. Gianni (Caroline Baglioni) parla con se stesso, tra un tiro di sigaretta e l’altro, si rivolge domande, si arrabbia, e vomita grida di ribellione mentre sullo sfondo, i nastri originali registrano rumori di porte che si aprono e si chiudono, voci di telegiornali dell’epoca e tracce musicali tra le quali i Led Zeppelin, gli Afterhours e David Bowie che fanno da colonna sonora all’intero spettacolo. Il disagio personale vissuto dal protagonista si rende specchio del disagio di un’intera società, che costringe l’individuo all’inevitabile confronto con i modelli da lei proposti: i soldi, il “sorriso bianco”, un auspicabile numero di donne da portarsi a letto. Gianni è l’espressione di un conflitto individuale insuperabile, di una lacerazione dell’io che altro non chiede se non un po’ di pace: «volevo solo essere parte della natura, un animale in grado di vivere senza doversi fare troppe domande» così registra uno dei nastri finali. Uno spettacolo che ci racconta meglio di qualunque altro il vero dramma dell’essere al mondo, ancor più quando a essere recepito è una delle tante menti “malate di niente”, così connessa alla verità e alla nudità delle cose di questo mondo. Con i suoi toni sprezzanti ed evocativi la voce di Gianni si abbandona all’indagine intorno all’individuo immerso nella sua inevitabile solitudine: non vi può essere collettività, infatti, né rapporto di coppia che possa sottrarre l’uomo dalla sua originaria condizione di isolamento; essa si configura come stato imprescindibile della natura umana, poiché se anche la si volesse sventare unendosi a un’altra persona, la solitudine del singolo, inserita in un rapporto di coppia, non potrebbe che divenire «una solitudine a due». Non c’è rifugio, dunque, né via di uscita. Il vero messaggio è che l’uomo può contare solo su se stesso e portare avanti una battaglia in completa autonomia; forse è questo a cui Gianni si riferisce quando afferma: «l’individuo solo è il vero rivoluzionario».
La scarpa – tante scarpe di vario genere, colore e misura – è l’unico elemento scenico. Come ci rivela il regista, oltre a essere stato l’oggetto identificativo del corpo senza vita di Gianni, è da sempre un elemento teatrale dal grande valore evocativo, il simbolo del mettersi nella parte di qualcuno, cosa che difficilmente trova la sua piena attuazione: «nel teatro, così come nella vita, non è mai possibile riuscirsi a mettere totalmente nei panni di qualcuno, a volte risulta impossibile persino interpretare noi stessi», ed ecco che Caroline indossa una scarpa di lei e una di Gianni, proprio a voler denunciare l’impossibilità di poterlo restituire nella sua pienezza e come la stessa autrice ci dice: «è una questione di sincerità, una volontà di rispetto del personaggio, così complesso e distante da me». Questo non ostacola il realizzarsi di un’autentica fusione finale tra la figura di Caroline e quella di Gianni, quasi un atto di riconciliazione con quello zio che, forse a causa della distanza anagrafica, non era stato ancora ben compreso e decifrato dagli occhi di una bambina quando egli era ancora in vita.
Gianni non è che un eroe dei nostri giorni, un personaggio che ci illumina sul valore della parola, strumento da lui celebrato e conteso tra un’esigenza di testimonianza e un mezzo terapeutico di purificazione di un malessere che lo tiene ingabbiato; rivelatrici sono le parole da lui pronunciate in uno dei punti più toccanti della messinscena: «questo mio male non sarà inutile, a qualcuno sarà necessario…in fondo parlare con se stessi non uccide».
Valentina Cirilli
(44)