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Esiste un canone teatrale femminile? Risponde il seminario Donne du du du

Esiste un canone teatrale femminile? Risponde il seminario Donne du du du

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Valeria Moriconi

Un appuntamento dal titolo curioso, un momento per fermarsi a riflettere sulla possibilità di esistenza di un canone teatrale al femminile: il seminario Donne du du du è stato l’occasione per sollevare dubbi e ipotesi intorno a questo tema, spinoso per molti versi e abitato da stereotipi. Tenutosi lo scorso 27 luglio al Centro Studi Valeria Moriconi nell’ambito del progetto più ampio Back to the future!, l’incontro ha avuto tre relatrici, mediate dal direttore di Amat Gilberto Santini: la regista teatrale Serena Sinigaglia, la docente di letteratura teatrale italiana presso l’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” Anna Teresa Ossani e la drammaturga Sonia Antinori.
Gestito dalla Fondazine Pergolesi Spontini, il Centro Studi e Attività Teatrali Valeria Moriconi è il punto di riferimento fondamentale per la conservazione della memoria storica legata alla figura dell’attrice jesina, una donna tenace che voleva restituire alla sua città d’origine tutto quello che lei in prima persona aveva avuto dal teatro.

Proponiamo in questa sede una trascrizione dei dubbi e delle ipotesi sorti sull’esistenza di un canone teatrale femminile.

Gilberto Santini: Questo incontro di oggi è molto importante ed è l’inizio di un percorso chiamato Back to the future! “Back” si riferisce alla memoria che abbiamo pazientemente ricostruito, perché una vita come quella di Valeria Moriconi, affrontata come un’esperienza artistica-esistenziale, è sempre un seme; ora bisogna capire se questo seme può diventare un grande albero.
Il seminario vuole avere un’idea di dialogo, di incontro e di progettualità; questa memoria vorremmo giocarla rispetto a un futuro, un futuro che vogliamo indagare partendo da alcune premesse.

Una delle premesse è la «leggerezza pensosa», come direbbe Calvino nelle sei lezioni Six memos for the next millennium, che si chiarisce già dalla scelta del titolo Donne du du du, un riferimento alla canzone di Zucchero. Riteniamo completa ma non conclusa la possibilità della memoria della Moriconi, e vorremmo cercare di capire cosa ci può dare questa eredità.
La prima idea di riflessione è quella più ovvia, volendo indagare il tema del femminile.

Valeria Moriconi è stata una grande donna di teatro e non sono state moltissime le grandi donne di teatro; di qui l’idea di ragionare tra dubbi e ipotesi sull’esistenza o meno di un teatro femminile. I dubbi sono nostri che abbiamo organizzato; sentiamo se le nostre ospiti hanno delle ipotesi.
Inizierei con il chiedervi se ha senso oggi parlare di un teatro al femminile, se esiste e che cosa è. Lancio subito una piccola provocazione: ho ripercorso varie storie della regia e se prendo la voce sintetica elaborata per il Dizionario dello Spettacolo del ‘900, non trovo tracce di nomi di registe se non quello di Pina Bausch… Quindi: è un problema di genere, è un problema storico-sociale che poi è diventato di fatto teatrale…

Serena Sinigaglia: Parlando di teatro al femminile, ci sono due cose che mi lasciano desolata e sconfortata: uno è l’aggettivo giovane perché sentirmi dire giovane dopo aver fatto 60 e più spettacoli e 19 anni di lavoro teatrale, mi ferisce da una parte e dall’altra mi preoccupa per i giovani veri, quelli che hanno 21 anni che a questo punto sembrano non esistere; l’altro aggettivo è femminile, per cui non significa che non ci siano differenze tra me e Luca Ronconi per esempio, ma è uno dei tanti elementi che fanno di me quello che io sono.
La questione femminile è una questione che noi conosciamo molto bene: la donna ha subito una discriminazione secolare e quindi le è rimasta anche preclusa la possibilità di recitare. Le donne non potevano recitare, a causa di un dictat della chiesa: Shakespeare faceva i suoi testi con al massimo un personaggio femminile perché voleva essere sicuro che il suo spettacolo fosse bello. Io ho fondato una compagnia che per caso è soprattutto femminile, ma mi ritrovo un sacco di attrici, bravissime, disoccupate. Il problema di disoccupazione cresce se parliamo di teatro di prosa, dovuto all’assenza dei ruoli per le donne nei classici. Basta considerare, infatti, anche le poche possibilità che hanno le donne di fare quel ‘salto’ che consacra il proprio nome, ‘salto’ che si riesce a fare quando si recita Macbeth o Amleto: ma quali sono i ruoli destinati alle attrici all’interno di queste due opere? Lady Macbeth e Ofelia: il primo è un ruolo per una donna di una certa età e per un’attrice di una certa esperienza e quindi si presuppone che a una certa età l’attrice abbia già fatto il ‘salto’; l’altro è sì un ruolo per una donna giovane, ma è uno solo a fronte delle mille attici che scalpitano per averlo. Questo però è un problema politico-sociale, non è legato al teatro.

Il mio teatro non ha un’impronta particolarmente femminile rispetto a un altro…. L’identità e il genere sono due cose diverse: io posso benissimo essere di genere femminile ma avere un’identità maschile; e quindi posso avere un segno registico più maschile di un genere maschile che però ha un segno femminile: quindi diventa interessante, ma è un discorso estetico-poetico.
Il problema qui alla base è politico, economico e sociale di stesse opportunità pur nelle diversità fisiologiche che una donna ha rispetto a un uomo.

Anna Teresa Ossani: Siamo partiti da un presupposto inesatto: abbiamo parlato di teatro senza specificare che non parliamo di una dimensione testo-centrica – cioè quella che io insegno – perché il Ministero ha pensato bene che la letteratura teatrale fosse da collocare nel più vasto settore dell’italianistica, già a scandire una cosa importante che ancora ci condiziona fortemente e cioè che la critica teatrale è ancora in mano ai critici letterari.

Ma c’è un altro elemento fondamentale. Abbiamo parlato di teatro dicendo e sottolineando che esiste ancora un problema in origine: che cos’è il teatro, è il testo o è lo spettacolo che io vedo in scena? E quanti elementi compongono la realtà teatro? La scrittura, la recitazione, la scenografia, la regia sono tutti elementi e sono codici che interagiscono e che insieme formano la componente teatro. Quindi se io mi pongo il problema del teatro al femminile dovrei anche pormi il problema di tutti questi codici e di come in questi diversi codici agisce la realtà femminile.
La prima risposta consuona perfettamente con quella di Serena: non esiste un teatro al femminile. Possiamo dire certo che il teatro al femminile, o il teatro in genere, o comunque l’artista, ha una mente androgina (questo in genere è la giustificazione che si dà; l’idolo ermafrodito non è solo un miraggio di Savinio ma in fondo di tutti gli scrittori che vorrebbero riuscire a restituire la completezza, la totalità dell’essere). Ma dietro c’è un altro problema di cui faceva cenno Serena: noi – noi come Paese, ma più in generale noi come Paesi dell’Europa Occidentale – non abbiamo una tradizione di teatro al femminile; non esiste un canone – dove canone non indica solamente delle opere che costituiscono dei modelli di riferimento, ma indica anche una tavola di valori che è gradita al pubblico. Allora quali sono i modelli femminili di teatro con cui mi posso rapportare per dire che di lì in poi è iniziata una tradizione? Se io penso al teatro italiano dopo Pirandello, che cosa mi trovo? Certo, negli Anni ’50 comincia un proliferare anche di scrittura al femminile, penso per esempio alla regista Pavlova che ha introdotto un pensiero differente e fondamentale sulla figura di Medea; ma è un caso isolato che non è riuscito a dare vita a una tradizione.

Vorrei concludere il mio intervento citando Calvino. Gilberto Santini prima parlava di una «leggerezza pensosa», che dovrebbe essere racchiusa in questo nostro seminario: c’è un racconto di Calvino che mi sembra fondamentale per capire questo discorso e ribadire il ‘no’ all’idea del teatro al femminile. Ne Le Cosmicomiche, libro tra letteratura e scienza, Calvino spiega che cos’è la mitosi, ossia la divisione cellulare. L’essere unicellulare Qfwfq spiega che la cellula si divide quando c’è uno stato di tensione e desiderio che motiva un fare, dove il fare si fa linguaggio e diventa una tensione verso l’altro, l’altrove e l’altrimenti. In questa ultima affermazione «l‘altro, l’altrove e l’altrimenti» credo sia racchiuso il destino del teatro; non interessa niente se questo altro è un lui o una lei. Simone de Beauvoir diceva che lui è l’uno, lei è l’altro. No. Per Calvino non c’è distinzione, questo altro è la spinta, la tensione verso qualche cosa che modifica sostanzialmente il mio essere e si rivolge diversamente, altrimenti, a qualche cosa che è anche altrove. E allora il nomadismo culturale di Sonia Antinori, questa ricerca continua verso altre culture, questa interazione di culture, ha un senso. Tutto questo noi non l’abbiamo fatto perché non abbiamo una tradizione che ci possa confrontare con qualcosa, la spinta verso «l’altro, l’altrove, l’altrimenti» non c’è stata. Del teatro al femminile abbiamo dei medaglioni, dei modelli isolati che non hanno saputo costruire una tradizione (penso ad Anna Bonacci o a Valeria Moriconi per esempio).

Sonia Antinori: Io sposterei il fuoco sulla mia categoria, ossia sulle drammaturghe: una minoranza della minoranza. La drammaturgia in Italia non ha una storia. Se pensate ai grandi nomi dei drammaturghi inglesi, nonostante siano inglesi, li conosciamo tutti – da Beckett a Pinter –, ma non si può dire la stessa cosa per la storia della scrittura italiana, in cui ci sono dei cammei come Flaiano, Pasolini, Buzzati, ma non c’è una linea continua.
Questo ce lo racconta in primis la nostra lingua: non abbiamo un’espressione per dire testo teatrale, dobbiamo dire play o pièce oppure testo, ma affiancarci l’aggettivo teatrale. Idem per quanto riguarda l’appellativo drammaturgo confuso con il Dramaturg, ossia l’esperto testuale, operatore della lingua che ha una formazione strettamente letteraria ed è in grado di tagliare, adattare, manipolare, scelto come consulente nei Paesi anglosassoni per orientare il regista dal punto di vista testuale.
Per dire autore teatrale noi dobbiamo dire appunto teatrale, oppure drammaturgo però annettendo questa confusione appena espressa.
La scrittura al femminile è una minoranza all’interno di una categoria già inesistente, anche la casa editrice che in Italia ha fatto la storia della drammaturgia, la Ubulibri, su una conta di 100 testi pubblicati, ha circa 5 autrici: per esempio Sarah Kane, inglese morta suicida a 27 anni, Barbara Nativi pubblicata post-mortem, la Srbljanovic, corrispondente dai Balcani durante la guerra.

Anna Teresa Ossani: Noi non abbiamo una tradizione come quella anglosassone. Però è vero quello che dice la Woolf: noi abbiamo preso in affitto una stanza dei maschi e usiamo i suoi mobili e arredi. Questo significa che anche il nostro tipo di scrittura, anche il nostro tipo di teatro, è in qualche modo modellato su quello maschile, come se noi volessimo metterci alla pari e questo già determina una condizione di differenza e di inferiorità. Questo è sbagliato. Anche i grandi centri di studi delle donne – quello di Firenze, di Bologna… – non hanno quella cultura che è alla base del mondo anglosassone, sono prive di quella conoscenza di metodo e nessuno si è posto il problema di quale sia la differenza culturale. Perché l’Italia e le donne italiane sono sempre dietro, vengono dopo nelle scelte rispetto alle donne del mondo anglosassone? Anche la critica teatrale in Italia è in mano agli uomini.

Gilberto Santini: A me quello che interessa nel discorso che stiamo facendo è come l’andare fino in fondo sulle identità sia molto importante e qui c’è una città che si è trovata, tra le sue possibilità rispetto al teatro, una grande attrice che ha aperto dei percorsi. Siamo qui anche per andare verso il futuro. Vi chiedo: qual è un’azione di politica culturale che potrebbe essere invece utile, non a difendere o a brandire l’esistenza di un teatro al femminile, ma per riequilibrare le questioni?

Serena Sinigaglia: Ci sarebbe da ragionare molto su questo. Credo infatti che sia un problema che tocca la donna su tutti i livelli, non solo su quello culturale. Poi adesso la questione è più spinosa, è sottile, io vivo continuamente una sorta di minore considerazione, che non si palesa mai, molto ipocrita, non distinguibile, ma che sento, percepisco.
Per esempio: la donna regista è vista in diffidenza dai tecnici; oppure un uomo isterico può esserlo, una donna isterica no. E via dicendo, tutta una serie di conformismi terribili che agiscono ma si finge che non agiscano e quindi è anche difficile stanarli nella società contemporanea.

Quindi ci sarebbe da parlarne a lungo; io ne ho sofferto nella mia carriera, percepisco continuamente una discriminazione, a meno che non si faccia parte di qualche consorteria (io li chiamo fenomeni massonici di vario tipo, cioè piccole caste che si auto-proteggono e che hanno una loro riconoscibilità politica in questo Paese), o si faccia parte di un fenomeno (sia dato per fortuna o per caso isolato: se dura vuol dire che non è solo un fenomeno ma c’è una sostanza, però anche su questo non c’è certezza, perché appunto si vede solo in seguito come verrà valutato l’operato di un singolo artista). Se però non si è né un fenomeno né si fa parte di qualsiasi forma di casta, e inoltre si è anche donna, allora si subisce una discriminazione.
Quello che io farei nel concreto è cercare di favorire testi che abbiano molti ruoli di donne, accompagnandoli fino alla messa in scena.

Gilberto Santini: Quello di cui tu stai parlando è la necessità di un salto culturale, di un cambiamento di prospettiva, che si fa anche se io tengo un corso piuttosto che un altro all’Università per un ragazzo di 19 anni. Allora, partendo dal Centro Studi Valeria Moriconi, si potrebbe da una parte ragionare su questa assenza di ruoli e invocarli e d’altra parte capire come e se questi campioni sparsi possano farsi canone: questa potrebbe essere un’azione nel futuro prossimo, interessante dal punto di vista sia della creazione che della rilettura…

Serena Sinigaglia: …Prendendo proprio il valore profondo di un’artista come Valeria Moriconi, stando attenti a non cadere in uno degli stereotipi che poi condanna la donna e le attrici. Ecco qui che si apre un altro problema, che è poi uno stereotipo conformista che è stato imposto: quello della prima donna. È uno stereotipo molto maschile, ma purtroppo cavalcato a volte fin troppo per necessità dalle stesse donne: ed ecco che la donna non è mai una femmina solidale, non sta mai in scena con altre 15 femmine, tutte protagoniste; mentre gli uomini fanno branco, le donne fanno la guerra. Questo prima di tutto dobbiamo cambiarlo noi stesse; io dirigo una compagnia di donne e la mia fatica maggiore in tutti questi anni è stata quella di cercare di creare una cultura di convivenza tra le donne; ma qual è il problema a monte? Che c’è troppo poco lavoro, il lavoro è come il pane… È una spirale. Bisogna fare una politica culturale che incentivi di più il lavoro a tutti i livelli, in particolare per le donne; se censiscono quanti uomini attori professionisti lavorano e quante donne, la percentuale è disarmante (90% di attori maschi che lavorano e il contrario per le donne). Se fossi l’Assessore Culturale di un luogo farei lavorare le attrici cercando di uccidere qualsiasi forma di stereotipo, spesso maschile, ma cavalcata malamente dalle donne.

Sonia Antinori: Vorrei aggiungere che la continuità, la durata e l’artigianalità del lavoro è la vera e unica risposta al discorso dei fenomeni e delle mode. Credo che questo aspetto sia legato a una metodologia al femminile, un andare con lentezza verso qualcosa; è una sorta di “cova”. Una cosa che ho capito del mio modo di scrivere, che evidentemente aveva una metodologia al femminile senza che io me ne fossi accorta, è relativa a quando sono stata a fare un workshop di autori emergenti a Edimburgo; lì mi sono resa conto che il mio modo è covare, assimilare, rubare, è una sorta di cleptomania intellettuale di qualsiasi cosa, che poi elaboro e ripropongo. Questo è un procedimento che ho visto con la saggezza del poi anche con l’ausilio di una psicanalista, la docente universitaria Dott.ssa Giovanna Curatola, fondatrice del Metodo Effe: è il ragionamento sulla metodologia femminile, ossia una rielaborazione che non abbia il capestro della realizzazione, della produttività immediata dell’oggetto, ma che possa essere un luogo, un’incubatrice di un percorso.
La mia proposta è questa: creare delle situazioni, delle modalità per percorrere questi luoghi, questo emblema di femminile che può essere stata Valeria Moriconi.

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